Troppo cosplay del reggae: Neil Perch, fondatore di Zion Train, si racconta a R&D Vibes

Un po’ di settaggio degli effetti ci vuole, specialmente se il mixer su cui andrai a suonare non lo avevi mai visto prima. Ma ciò a cui sembra tenere di più è il funzionamento del maxischermo alle sue spalle: proiezione centrata, nitidezza dei colori, scritte ben messe a fuoco. E il perché è presto detto. Neil Perch, in arte Zion Train, non ha certo bisogno di grandi soundcheck per manovrare ad arte strumentazioni audio dopo 35 anni sulle scene. E mentre mescola suoni, effetti e frequenze per costruire il paesaggio ritmico e melodico sul quale può scatenarsi la voce di Cara – cantante con lui in tour anche per promuovere l’ultimo disco Dissident Sound – vuole essere sicuro che alle sue spalle il messaggio si veda bene. Un messaggio fatto di slide psichedeliche ma con frasi e dati concretissimi su inquinamento e riscaldamento globale ma, soprattutto, incentrato sulle soluzioni: da come e perché scegliere anche in casa delle energie rinnovabili fino alle buone pratiche d’uso comune per essere sempre sostenibili nei consumi di tutti i giorni. Un’attitudine all’attivismo e alla positività che sono insite nella tradizione Reggae e sound system di cui Zion Train si fa portavoce, nonostante delle sonorità molto più vicine alla elettronica da club europei che al roots degli studi giamaicani. Ma è proprio questo il punto secondo Zion Train: contestualizzare la musica in base al proprio background senza diventare un cosplay culturale. Lo scimmiottamento svilisce e disinnesca il messaggio come frutto di una forma e non di una sostanza. E il Reggae, specialmente attraverso i sound system, può assumere diverse forme ma con un’unica sostanza: questo ciò che predicava anche il mentore di Neil Perch, il compianto Jah Shaka, di cui il producer britannico non ha seguito il percorso spirituale bensì quello attitudinale, di non scendere a compromessi e di cercare di trasmettere, attraverso una musica e delle performance altamente comunicative, la voglia e la possibilità di un cambiamento. In occasione della sua data nel Salento ospite del SEI Festival di Coolclub, la trasmissione radiofonica R&D Vibes – giunta alla diciassettesima stagione ogni sabato alle 12.30 su Radiosonar, Gemini Network, Lautoradio e Radio Rogna – ha intervistato Neil Perch dietro le quinte del Castello Volante di Corigliano d’Otranto. Il podcast della puntata coi commenti all’intervista è disponibile a questo link.

La prima domanda è d’obbligo. Hai iniziato ad amare questa musica sotto le sue casse: puoi lasciarci un pensiero, un ricordo su Jah Shaka?
Sì, certamente. Credo che senza Shaka, in un certo senso, non esisterebbe Zion Train o esisterebbe uno Zion Train molto, molto diverso. E poi senza Shaka non ci sarebbero i Disciples, non ci sarebbero Iration Steppas e tutti quelli che sono arrivati dopo, non ci sarebbe nessuno di loro. Per cui, in effetti, non esisterebbe una scena dub britannica. Quindi Shaka ha influenzato forse 5-10mila sound system, crew e produttori in maniera molto potente perché la sua eredità vive attraverso la musica, non solo attraverso Malachi, suo figlio, Young Warrior. Che poi è molto bello vedere anche lui sulle scene. L’eredità di Shaka vive non solo attraverso la musica, ma attraverso un’intera scena musicale e il suo atteggiamento di non accettare compromessi riguardo ciò in cui credeva. E, bada, quello in cui credeva non è quello che credo io, ma la sua grande forza era non scendere a compromessi riguardo alle sue convinzioni e cercare di usare la musica per far sì che queste convinzioni diventassero concrete. E questo è un qualcosa che resta ancora oggi, anche ora che se n’è andato e penso che sia molto importante che venga rispettato questo tipo di atteggiamento nella musica.

Hai appena detto: niente Jah Shaka, niente scena Dub UK. Tu sei considerato uno degli ispiratori dell’intera scena Dub e sound system italiana, perché hai sempre avuto un occhio di riguardo per gli artisti italiani, anche quando non erano famosi. Sto parlando di Paolo Baldini, Insintesi, Natural Dub Cluster, Shanti Powa e potrei aggiungerne altri. Pensi che sia solo una coincidenza o c’è una vibrazione particolare che ti lega al Dub made in Italy?
Mi piace l’Italia e mi è sempre piaciuto stare in Italia, fin dalla prima volta. La prima volta in assoluto che gli Zion Train suonarono in Italia fu all’Ex Snia, a Roma, con One Love Hi Powa. Poi il giorno dopo a Napoli. Penso che il giorno dopo a Napoli ci fu una vibrazione fantastica, anche se la scena Reggae era molto giovane e in un certo senso particolare. Quindi credo di aver trascorso molto tempo in Italia perché l’Italia mi piace. E poi, sai, quando frequenti gli italiani, hai più contezza delle cose che succedono qui. Quindi fai più caso ai sound system italiani e ai musicisti italiani. E ovviamente con la mia etichetta sì, ho coinvolto molti musicisti italiani ma anche polacchi, francesi, croati, britannici. Ma la cosa importante per le mie etichette – nel periodo in cui pubblicavamo un sacco di cose – era fare uscire musica che pensavo fosse buona e che le altre persone diversamente non avrebbero potuto ascoltare. Quindi è chiaro che ad esempio gli Insintesi siano un progetto di alta qualità, con idee molto originali e carine. Ma nel mondo musicale Francesco si trova in un angolo di mondo come Lecce lontano da ogni dove. Ed era esattamente questo lo scopo della mia etichetta: portare alla luce persone come lui attraverso la mia piattaforma più internazionale. Quindi in parte è una coincidenza, in parte è che vai dove ti porta il cuore, si sa. E ti dirò, una volta, quando ero in procinto di spostarmi dall’Inghilterra, stavo pensando di trasferirmi o in Olanda o in Italia. L’Olanda, beh… a dire il vero, Amsterdam è troppo, troppe feste da visitare, sarebbe stato fantastico vivere lì. L’Italia invece è un paese caotico, troppo caotico per vivere e lavorarci. Alla fine sono finito in Germania, perché – sai – avrei sposato una signora tedesca.

Ok, parliamo del tuo ultimo lavoro, Dissident Sound. Ascoltando questo album ho avuto l’impressione che, anche dopo trentacinque anni di carriera musicale, tu abbia voluto riaffermare alcuni temi, rimettere alcuni paletti. Innanzitutto che il Dub non può separare le sue radici dal Reggae. E poi, che il messaggio del Reggae è un messaggio politico, con un quadro sociale di lotta e resistenza. Mi è sembrata come una sorta di ribellione, una protesta contro il recente abuso del reggae nel mercato musicale mainstream. Mi sbaglio?
Hai… parzialmente ragione. Allora, diciamo che, considerando Zion Train come una voce potente, cerchiamo sempre di usarla per promuovere il progresso: il progresso politico, l’educazione politica e l’educazione sociale sono sempre molto importanti per noi. Indipendentemente da quello che succede nel Reggae, ciò che ci interessa è quello che succede nel mondo. Quindi a livello di messaggio, a livello di concetto, agiremo sempre così. D’altra parte, penso che negli ultimi vent’anni ci sia stato una sorta di movimento cosplay nel Reggae, che personalmente trovo assai sgradevole. Poi, le persone possono fare quello che vogliono, è ovvio. Ma non trovo tanto bello che ogni ragazzo italiano a cui piace il Reggae si faccia crescere i dreadlock e inizi a diventare un rasta, oppure ogni ragazzo polacco e così via. E non mi va bene che il primo pensiero di un sound system sia quello di suonare più forte degli altri e spenda soldi per diventare sempre più enorme, più immenso in termini di volume. Questo è il cosplay della cultura reggae. Dunque, cominciamo coi Rasta, visto che tutto parte da lì. Io non sono mai stato un rastafariano praticante, ma ne conosco il contesto sociologico ed è umiliante e offensivo per le persone del XXI secolo in Italia, Francia, Inghilterra o Polonia pensare di rappresentare quel tipo di condizione sociale. È una questione culturale difficile da spiegare: sei sensibile verso determinate problematiche? Ami la musica? Ami fare musica? Perfetto, nessun problema. Da qui a voler essere un rastaman e dire al mondo intero “io sono un rastaman”, “essere rastaman significa questo, significa quello”… cioè… un po’ si, mi sembra un insulto alle persone che sono veramente rasta e che ancora oggi praticano realmente il rastafarianesimo. Venendo invece ai sound system, se proprio vogliamo essere onesti, chiunque può farsi dare dei soldi da un amico o dai genitori, comprare un amplificatore digitale e delle casse spendendo un patrimonio e mettersi a suonare musica forte, ad alto volume. Ma non è questo il punto del sound system. Lo scopo del sound system è creare una vibrazione unica, una risonanza unica che investe il tuo cuore e la tua anima indipendentemente dalle risorse economiche che hai. Si costruisce un sound system per esprimere sé stessi ma recentemente ci si è allontanati da ciò. Per come la intendo io, la cultura reggae e la cultura roots hanno una visione anticapitalista. Allora, come fai a definirti anticapitalista quando spendi 40/50mila euro per farti un nuovo sound system? È un qualcosa che mi disturba in primo luogo dal punto di vista culturale. Quindi, in un certo senso, nell’album c’è anche una protesta verso questo perché riafferma il fatto che crediamo nel nostro modo di lavorare, che non siano necessarie nuove macchine super costose. Guarda per esempio il mixer che utilizzeremo sul palco stasera, non l’avevo mai visto fino a due ore fa. Magari avrà effetti difficili da trovare, ma non certo costosi da acquistare. E non c’è manco il tempo di provarlo: andiamo e vibriamo solo per dimostrare che in realtà tutta questa faccenda riguarda l’energia. Non è una questione di capelli o di quanti soldi spendi per un amplificatore. Oppure che hai visitato la Giamaica quattro volte, che vuoi l’applauso? Come puoi vedere noi contestiamo in ogni nostro modo di fare questo modello, ma in realtà penso che Zion Train sia ancora di più, non inteso quanto siamo fighi – non fraintendere – ma di più nel senso dell’ampiezza dei concetti che stiamo cercando di affrontare con l’umanità, la vibrazione positiva della vita, di un’umanità che prova a guarire il pianeta: a questo vogliamo andare a parare. Quindi in realtà questo cosplay dei rasta europei che giocano al sound system mi sembra – e ripeto, senza voler sembrare arrogante – un qualcosa di molto molto più superficiale rispetto a quello su cui ci concentriamo noi.

Riprendendo questo tuo approccio e tornando al tuo ultimo LP, immagino come anche la costruzione della musica sia stata pensata per andare in questa direzione che hai citato: nel nuovo album ho notato una melodia impressionante, secondo me migliore di altre produzioni, e un suono un po’ sporco. È corretto dire che questi elementi siano la rappresentazione musicale del discorso che hai appena fatto?
Sì, sì, ci può stare, sono entrambi elementi molto importanti. Se guardi e pensi al concetto di Dub, intendo il primo Dub reso popolare dallo studio di Tubby, si usava vecchia strumentazione che magari era stata buttata via da altre persone. Strumenti che Tubby stesso rigenerava, quindi super sporchi. È da qui che nasce la personalità, il carattere sonoro. E poi vennero altre persone come Tommy McCook, che arrangiava gli ottoni ma anche Ernest Rangling, ma comunque signori musicisti che suonano vera musica. Ora sento che molta musica è fatta da melodie grezze composte da un ragazzo o una ragazza che non fanno davvero musica, non suonano. Fanno queste produzioni ultra pulite perché tutte realizzate al computer. Invece tutta la musica di questo disco “Dissident Sound” è sì uscita dal computer ma attraverso macchine sporche per poi tornare nel computer più tardi. È stato come volere ancora una volta riaffermare alcuni pilastri, ovvero: la musica riguarda l’armonia, la melodia e il ritmo. Non è una questione di tempo e volume. Invece il mondo dei sound system contemporanei è incentrato sul tempo e sul volume.

Qualche mese fa ho fatto un’intervista a Steve Vibronics sempre qui nel Salento e gli ho fatto la stessa domanda che vorrei fare a te adesso. Alcuni sostengono che la crescita della musica Dub a partire dalla fine degli anni ’90 sia stata una delle cause della frammentazione del Reggae. Forse c’era la convinzione diffusa che, dal momento che il Reggae stava cominciando a diventare alla moda, avrebbe potuto avere abbastanza mercato per essere diviso in diverse tribù musicali come è successo al Rock, al Metal, al Funk e così via. Una previsione che, alla lunga, non si è rivelata esatta. E ancora oggi ci resta il dubbio se questa divisione fosse dovuta ad una legge di mercato venuta dall’alto, oppure fosse una scelta di gusto artistico della gente, del pubblico dal basso. Cosa ne pensi?
Allora, penso che in realtà l’esplosione del sound system in tutto il mondo sia dovuta a un gusto del pubblico perché la maggior parte delle scene internazionali sono portate avanti da appassionati. Che tu vada in Perù o a Helsinki, la scena Dub è gestita da persone entusiaste che sono semplicemente degli appassionati, cioè fanno questo solo per passione. Come Zion Train siamo stati fortunati nel corso degli anni perché abbiamo lavorato sia nelle scene di sound system autocostruiti, con persone che fanno serate indipendenti, sia in scene come questa o in festival più affermati. Voglio dire in situazioni non solo Reggae ma tipo il Gladstonbury Festival o il Fusion Festival, situazioni in cui si fanno giorni e giorni di musica di tutti i tipi. In questo tipo di eventi più grandi la differenza è che le persone sono professionisti, gli piace la musica ma non sono dei fanatici. Dall’altra parte invece non ci sono sound man professionisti, non ci sono organizzatori professionisti nella scena del sound system, essere gentili e appassionati non significa saper fare questo mestiere. A volte non è così eh, trovi anche gente che ha studiato per fare questo lavoro; a volte ne trovi altra che l’unica competenza che possiede è l’entusiasmo. Che per carità, è positivo, ma è sempre più difficile oggi organizzare serate in queste condizioni.
Per cui penso che sia una scelta delle persone, una spinta dal basso, ma voglio anche dirti che il ceppo di questa discendenza mi è molto chiaro. Quando Jah Shaka inizia a suonare nel Regno Unito fa immediatamente scuola, perché quando suonava lui lo faceva nella zona sud di Londra davanti a un pubblico che non era manco di 200 persone. E quello fu anche il momento in cui è iniziata la primissima musica Stepper. Dopo hai Dread & Fred, Disciples, Alpha & Omega nel 1989, esattamente quando uscì quella musica. Dopo ancora arrivano Iration Steppers, Rootsman, Zion Train, che più o meno iniziarono allora. E da allora Shaka è diventato sempre più grande e più o meno ogni sound system cerca di ricreare un impianto sonoro pulito per essere come Iration Steppers o Jah Shaka o quegli altri là. Quante influenze diverse, quante variazioni sul tema abbiamo avuto negli anni e quante altre cose sono accadute parallelamente a noi, pensa all’intera scena Drum’n’Bass. Ma è quasi come se fosse tutta una stessa genealogia, come se discendesse tutto da lì per poi evolversi e influenzare il mondo intero. Anzi, forse si è spinto tutto anche un po’ oltre. Prendi tipo il Messico: è un posto fantastico, c’è una grande passione per la musica e quasi tutti i selecter europei potrebbero avere spettacoli in Messico soprattutto se, sai, magari si pagano il volo da soli riuscendo a organizzare un tour di date per ammortizzare. A volte però mi sembra che ci siano più persone addette ai lavori, interne alla scena come promotori e selecter, rispetto al pubblico che poi va concretamente a seguire gli eventi. Questo è anche il limite del fare le cose dal basso: da un lato va bene, ma poi bisogna ammettere la differenza tra il mondo professionale dei musicisti che lo fanno per lavoro e questi gruppi di persone appassionate, tutte con voglia di essere coinvolte. Sono semplicemente due cose diverse.

In che direzione sta andando lo Zion Train nel 2023?
Sempre avanti, sempre avanti.

Luca Brindisino
alias La Penna Verde