Rocksteady Freddie, NYSJE: “Il nostro ska-jazz newyorchese concretizza l’utopia del sogno americano: unisce culture, abbatte barriere, connette persone”.

Intervista a cura di R&D Vibes (programma radio sulla musica e cultura Reggae in onda ogni sabato alle 12.30 su Radiosonar, Gemini Network, Radio Rogna e Lautoradio).

Testi a cura di Luca Brindisino aka La Penna Verde.

Esattamente 30 ani fa, nel 1994, nasceva il New York Ska Jazz Ensemble, complesso di musicisti eterogenei – alcuni dei quali provenienti anche da progetti importanti come Skatalites, Scofflaws o Toasters – che hanno creato un sound unico mescolando sapientemente Blues, Rock, Soul, Funk, Reggae e, naturalmente, Ska e Jazz. I fondatori del gruppo, Fred “Rocksteady” Reiter (frontman e sassofonista) e Rick Faulkner (compositore e trombonista), erano due componenti dei Toasters già da un paio d’anni quando lo storico leader Robert “Bucket” Hingley, incuriosito da questo progetto parallelo portato avanti dai due, aveva promesso loro di produrgli un disco sulla sua etichetta, la Moon Records. Alla fine gliene pubblicherà ben tre tra il 1995 e il 1998, prima di lasciargli spiccare il volo.

Un decollo non facile, che Rocksteady Freddie ha curato personalmente dalla promozione iniziale fino ai primi tour, caricandosi tutto sulle sue spalle quando Faulkner ha deciso di lasciare. Grazie a quel lavoro, però, il New York Ska Jazz Ensemble oggi può vantare tre decenni di concerti in ogni angolo del pianeta, dieci album in studio e tre live e oltre trenta musicisti di assoluto livello tra resident, turnisti ed ex collaboratori.

Una pozione magica musicale che affonda le sue radici nel meltin’ pot newyorchese e che Rocksteady Freddie rivendica con insistenza quasi disperata. E senza quella patina di superbia a stelle e strisce cui siamo un po’ abituati, quel “siamo meglio noi” alla base di tutto il colonialismo culturale (e non solo, purtroppo) statunitense. Sorprendentemente, invece, è al contrario. Dietro il sorriso sempreverde di Fred Reiter si percepisce la fatica di chi, nel corso degli anni, ha portato la sua musica in giro per il mondo cercando di svincolarla dai pregiudizi anti-americani. Un newyorchese bianco che ha preso due generi musicali storicamente simbolo della liberazione nera dai bianchi e ne ha fatto un sound originale, proponendola di fatto alle stesse platee mondiali che in questi generi hanno sempre trovato fonte di ispirazione per lotte, proteste e rivendicazioni, spesso e volentieri proprio contro la superpotenza americana.

Un cortocircuito non banale, poiché per quanto si possa dare per scontato che nessun cittadino rappresenti le scelte dei propri governi, la diffidenza può rimanere inconscia. E trasparire anche dietro un sorriso e alle parole che Rocksteady Freddie magari non dice, ma che non può fare a meno di farti arrivare quando parla di band in “bianco e nero”, di mescolanza di culture e sottoculture, di generi e sottogeneri, di connessione spirituale con il pubblico, che sia lì per ascoltare o per ballare. Nel rivendicare tutto questo come sound specificamente newyorchese, Reiter non fa altro che ricordarci che di fatto proviene da una città messa su da migranti, reietti, provenienti dai paesi più disparati, in cerca solo della felicità e di una condizione di vita migliore. E in questo, lo ska-jazz newyorchese dei NYSJE concretizza quel sogno americano che purtroppo è rimasto solo utopia, abbattendo barriere, unendo culture e connettendo le persone.

E no, Rocksteady Freddie queste cose non le dice, ma le fa. Perché, in fondo, è “solo” un musicista: è la musica a parlare per lui.

30 anni di musica, diverse line-up sul palco, un sound riconoscibile: NYSJE è un raro esempio di collaborazione tra artisti e musicisti di diversa estrazione.
Qual è l’ingrediente segreto della vostra pozione magica musicale?

[ride] Ci sono così tanti elementi… però sai quando hai una band con tanti elementi capisci sin dall’inizio che ci saranno concerti in cui non tutti ci possono essere. Per quello ci definiamo un “Ensemble”… in qualche misura tutto cambia ogni volta, sebbene in verità mi piacerebbe ogni tanto avere la stessa line-up perché, puoi capirmi, sarebbe più semplice elevare uno standard di ascolto, di sensibilità musicale. Pensiamo alle canzoni, alla loro forma, anche all’improvvisazione ma più al pezzo, non si tratta di free jazz, siamo più orientati verso la canzone. A me piace la musica dove puoi cantare la melodia…

Avete cominciato ad inizio anni ‘90, giusto?

Beh, ho iniziato con i Toasters nel 1992.

Come era il pubblico all’epoca nei confronti della musica ska?

Un qualcosa di magico, un periodo incredibile negli Stati Uniti e a New York. Tutto era spumeggiante ed è stato divertente esserci… beh, capirai, ero un giovanotto ogni cosa mi sembrava in qualche modo magica.

La gente impazziva per venire ai concerti in città.

Ho una domanda sociologica…. In Europa e specialmente in UK lo ska è tradizionalmente associato a un certo tipo di sottoculture giovanili come i Mod, gli skinhead, i rudeboy… Vale lo stesso per gli Stati Uniti? Avete mai avuto questo tipo di pubblico?

Si, certamente ci sono…. È chiaro come il fenomeno sia più evidente in Europa. Ma ai nostri concerti puoi certamente incontrare gruppi di skinhead, per quanto forse in passato fosse più probabile.

Come hai deciso di dedicarti a questo genere, ska jazz music?

Ho scelto io o mi ha scelto la musica? [ridiamo]… Non saprei, troppi elementi da valutare… Ma una cosa che ho pensato è che negli anni ‘40 la musica strumentale era musica popolare, per questo la gente la ballava. Dunque, perché non poteva essere la stessa cosa anche adesso? In un certo senso era la mia attitudine…

Abbiamo letto in un’intervista che hai dichiarato di eserti innamorato del reggae ascoltando “THE HARDER THEY COME” di Jimmy Cliff.

Si, certo. È stato amore a prima vista!

Parlando di musica vorremmo sfatare alcuni pregiudizi, degli stereotipi, come quello che vuole il Reggae una musica per principianti, fatto solo di due accordi mentre il Jazz sarebbe per musicisti esperti che ci cimentano in assoli magistrali…

[ride]

Come è venuto fuori di mettere insieme questi generi e provare ad abbattere il muro del pregiudizio?

Bella domanda… Beh, in passato quando mi è capitato di suonare delle reggae band con la sezione fiati non mi sembravano troppo, come dire, sul pezzo… Così mi sono sentito in dovere di chiedere di più ai miei musicisti, di cercare di alzare di più l’asticella. Amiamo la musica, la rispettiamo e in quanto sassofonista mi sento di suonare in senso jazzistico, voglio dire: il jazz ha tanti significati, io non so cosa voi chiamate jazz ma per me… Non so se mi spiego: io amo il rock’n’roll, amo la sua energia e più invecchio più mi pace il rock. Ma è col jazz che mi esercito continuamente a suonare….

Ok, mi rendo conto che non sto rispondendo alla domanda: torniamo alla questione del reggae come musica facile. Si tratta di un punto di vista ingenuo perché ogni genere di musica va ascoltato, va vissuto e va apprezzato. Ci sono vite intere dietro ogni ritmo, anche il rocksteady, ha tanti periodi, capisci… Devi saperlo apprezzare. Io racconto sempre questa storia: ero a New York durante un live ed an un certo punto arrivano certi jazzisti e cominciano a stroppiare dei pezzi di Charlie Parker… Ma che stai facendo, fratello? Devi portare rispetto alla musica… non è questo il senso della musica.

Se vogliamo, ogni stile ha la sua estetica: è così anche per lo ska, che per me ha questa caratteristica di avere i fiati sempre in primo piano, mi piace una melodia gradevole, mi piace l’armonia, noi siamo stati influenzati dagli Skatalites, in fondo.

Disinneschiamo questo cortocircuito, allora: il reggae è musica popolare, anche il jazz lo è ma chi ascolta jazz ai giorni nostri ha di solito un orecchio più raffinato. Pertanto, questa cosa di unire i generi sembra una sorta di missione…

Assolutamente, è anche la missione di unire genti diverse nell’ascolto, questa è l’altra cosa divertente. Tempo fa stavamo suonando in un paese dell’Europa dell’est ed a un certo punto senti un pezzo… cos’è? Mingus?… Capisci….

Freddie, tu vieni considerato uno degli inventori dello ska jazz. Ma di fatto non è lo stesso ska delle origini un tentativo di fare jazz in levare?

Beh, no… in realtà lo sento come una cosa molto mia: mia, di Rick e della band. Stavamo suonando con gli Skatalites ed eravamo veramente ispirati da loro. Eravamo in tour con i Toaster nel 1993, andavamo ovunque, suonavamo con gli Specials, con i Selecters, con gli Skatalites ed ogni notte questi arzilli vecchietti giamaicani spaccavano i locali con il loro ska strumentale che ti riportava in Giamaica.

Quella è stata la nostra fonte di ispirazione a tutti i livelli, ma se si parla di ska-jazz proprio no. Io sono di New York, non sono un veterano della Giamaica, questa è roba mia e ce la infilo dappertutto con queste armonie profonde che loro tipicamente non fanno. Loro avevano in repertorio alcune canzoni jazz ma, sai, io, la nostra band, abbiamo davvero acchiappato un’altra vibe. La acceleriamo, perché poi ci metto anche il Punk. Quando suoniamo Arachnid, per esempio, abbiamo una mentalità diversa. Vedi: la mia band è una rock band, la musica giamaicana viene dalla Giamaica, quello che abbiamo fatto viene da New York. Quindi, avevamo la velocità, avevamo l’armonia, avevamo la mentalità rock, anche la mentalità della canzone. Non è che faccio una canzone e lascio che le persone suonino, suonino e suonino. È un’estetica differente.

Quindi pensi che la tua musica sia più da ballare o più da ascoltare?

Bah, diciamo che spetta al pubblico decidere? Voglio dire, quando vedi che tutti ballano ti dici “beh, abbiamo vinto”, ma se le persone sono più grandi e vogliono solo ascoltare o se suoniamo in un jazz club, ripeto, l’estetica è diversa. Abbiamo suonato a New York in un paio di jazz club molto carini ma anche davvero molto piccoli. A me piace vedere le persone impazzire e invece loro stavano lì seduti a guardarti tutto il tempo. La prima volta ti confesso è stato un po’ imbarazzante perché mi sentivo come un pesce in una boccia di vetro. Ma poi ho realizzato: ok, jazz club, parlo un po’ delle canzoni, mi rilasso. Da lì in poi è stato fantastico e ci torneremo di nuovo a novembre, eravamo a Broadway, è molto bello, lo sai?

Ska e Jazz sono nati come musica di protesta, musica di lotta, musica di svantaggio sociale. Oggi sono diventate solo intrattenimento, solo una scusa per banalità musicali o hanno ancora qualcosa da dire?

Beh, riprendo un po’ quello che stavo dicendo prima riguardo a ciò che intendo: cioè, non voglio sembrare uno che usa cliché, però la musica ha a che fare con l’amore e noi siamo qui per connetterci con un’altra cultura. Quindi, è ovvio che ci auguriamo che sia una festa, ma quel che conta di più è che alla fine veniamo da un posto lontanissimo e possiamo suonare la nostra musica, cercando di connetterci spiritualmente o in qualunque altro modo piaccia alla gente. Si, guarda, penso ci sia qualcosa di molto profondo e poi, lo sai, ogni persona funziona diversamente. Per questo penso che la mia band abbia avuto successo, perché possiamo suonare per tutti: in un club, possiamo suonare per le persone più grandi, mi piacciono i club dove c’è posto per mangiare, posto per sedersi, per bere e per ballare. Così sono tutti contenti, no?

Interagiscono diversamente, in modi diversi.

Sì, ma guarda vanno tutti bene. A volte anche suonare per i bambini piccoli è fantastico, senti la loro energia, è bello.

Sono completamente d’accordo con questo approccio, completamente d’accordo. È l’approccio che amo nella musica: ognuno deve sentirsi a suo agio.

Giusto, giusto, giusto, giusto.

Una cosa che ci piace dello ska e del reggae è che sono parte di una musica diffusa ormai in tutto il pianeta e ciascun paese, ciascuna area del mondo l’ha fatta propria introducendo i propri elementi di spiritualità, di lotta, di cultura… Hai viaggiato per decenni in tutto il mondo: qual è la cultura musicale a cui hai attinto di recente? Voglio, dire, c’è un paese o una parte del mondo dove hai pensato: qui c’è una cultura musicale che mi piace e che può darmi qualcosa?

Beh, da nessuna parte trovi la perfezione. Noi abbiamo suonato in molti posti eccezionali…

Non ti stiamo chiedendo il posto migliore dove avete suonato, bensì quelli che più vi hanno stimolato, da cui vi siete portati indietro qualcosa di importante per la vostra musica.

Cominciamo col dire che lo ska è un movimento 2tone (dunque parliamo di bianchi e neri) e ci piace sempre avere una band in “bianco e nero” quando è possibile, per mostrare che questo è non solo quello in cui crediamo, ma che lo viviamo in prima persona. Per cui, per noi questo è il messaggio che portiamo, ovunque andiamo. Per il resto, ci sono un sacco di posti fantastici, mi piace quando viene tanta gente… più pubblico c’è, più arriva energia. Non so se si tratta di qualcosa di spirituale. Quello che penso è che è stato importante superare il Covid e tornare a portare il nostro messaggio in posti e culture diverse. Adoro sentire il pubblico cantare in coro le melodie: è lì che la musica mette in connessione.

L’ispirazione è tutta nella vibe

Esattamente. 

In Italia abbiamo diversi gruppi skajazz come la Northeast Ska Jazz Orchestra, Boundless Ska Project, Southest Ska Jazz Orchestra… avete ispirato un sacco di gente… i Bluebeaters, Mr T-Bone… conosci qualcuno di questi?
Mr T-Bone l’ho incontrato tanto tempo fa, suonava su mood in minore: l’ho portato a New York, ha suonato con me nella band, abbiamo fatto una tournée, abbiamo una lunga storia alle spalle.

La NESJO anche: ho registrato con loro, ho fatto concerti, hanno fatto una delle mie canzoni… beh, è figo.

Lo sapevi che la prima canzone ska non giamaicana fu registrata in Italia nel 1966 da Peppino Di Capri: lo conosci?

No. 

E’ un crooner italiano degli anni 60… Ha portato il twist in Italia nel 62 e nel 66 ha provato a fare lo stesso con la musica giamaicana…

Pino Di Capri…… da Napoli?

Si da Napoli…

No… non lo sapevo. Il mio chitarrista e il tastierista sono italiani, di Genova [Andy Mittoo piano e voce, Simone Amodeo alla chitarra, ndr]

Come riesci a gestire l’attività in studio con l’intensità dei tour e dei live in giro per il mondo?

È una delle cose divertenti dell’essere musicista. Devi fare cose diverse, devi suonare il flauto per questo pezzo, devi imparare cose per quest’altro pezzo, poi c’è la band: la mia band è in piedi da 30 anni.

Avete avuto un forte attività in studio specialmente negli anni 2020-2022: avete prodotto un sacco di album ma anche tante tournée…

E ho anche suonato per altre band che me lo hanno chiesto, è stato divertente. Mi hanno chiesto degli assolo per una registrazione.

Hai davvero un sacco di energia!

È la musica a tenerci giovani.

A parte il Jazz e lo Ska, che tipo di musica ti piace, che musica ascolti?

L’adoro tutta, amico mio, amo davvero tutta la musica. Poi, sai com’è, ho delle fasi come tutti i musicisti: ascolto questo, non ascolto quello. In questo periodo sto ascoltando gli Electric Light Orchestra con gli archi: adoro il modo in cui usano gli archi. Ma poi ci sono così tante grandi band, così tanta musica, questo è il punto. Ad esempio se ho bisogno di rilassarmi metto un po’ di jazz, ascolto i sassofonisti classici, ma poi mi piace svariare: mi piace ascoltare l’Hip-Hop, la musica Pop, mi piace sentire cosa succede in giro.

Ho l’ultima: hai qualche sogno musicale – non so un concerto, una collaborazione, un disco – che hai da tutta la vita nel cassetto e non hai ancora realizzato?

Si: mi piacerebbe suonare al Madison Square Garden. Non ho mai suonato al Madison Square Garden: cioè, non è che lo devo fare a tutti i costi, ma sì, mi piacerebbe farlo.

E poi, voglio dire, mio Dio, suono ai massimi livelli con i migliori musicisti e non mi devo mai – anche se questo è impossibile – non mi devo mai preoccupare di nient’altro se non suonare la mia musica: sai, non è così scontato nella vita, quindi non mi lamento…